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IL BARBIERE DI SIVIGLIA

Opera in Piazza 2018

Per celebrare il 150° anniversario della scomparsa di Rossini, in Piazza Farinata degli Uberti andrà in scena Il barbiere di Siviglia, opera buffa in due atti, su libretto di Cesare Sterbini, tratto dalla commedia omonima di Pierre Beaumarchais del 1775. L’opera sarà presentata in forma scenica completa con scenografie, costumi, luci. Alla sua realizzazione parteciperanno oltre 70 artisti.

Biglietti in vendita da:
Libreria Rinascita
Bonistalli Musica
Discofollia Club Musica & Spettacolo Empoli
Sezione Soci Unicoop Firenze presso Centro*Coop

Prezzi
1° settore: 25 € intero; 20 € ridotto + dp
2° settore: 18 € intero; 14 € ridotto + dp
3° settore: 13 € intero; 8 € ridotto + dp

«Che invenzione prelibata!»
Il 20 febbraio 1816, al Teatro Argentina di Roma, il pubblico fischia a pieni polmoni e la critica stronca con disprezzo Almaviva, ossia l’inutile precauzione, ultima fatica di Gioachino Rossini, un ventiquattrenne compositore marchigiano, già noto presso i maggiori palcoscenici italiani per aver composto opere liriche di un discreto successo. Il musicista e il librettista Cesare Sterbini hanno avuto l’ardire di mettere in musica un soggetto, tratto da una commedia di Pierre Beaumarchais che, una trentina di anni prima, Giovanni Paisiello, al tempo ritenuto il massimo compositore italiano, aveva musicato con il titolo Il Barbiere di Siviglia. Gli ammiratori dell’anziano maestro pugliese, distribuiti tra platea, palchi e loggione del teatro romano, organizzarono un’autentica azione di boicottaggio, poiché vedevano come mancanza di rispetto il fatto che un giovane alle prime esperienze si ritenesse in grado di lavorare al medesimo soggetto.
Rossini e Sterbini sono consapevoli del rischio della stroncatura e lo dimostrano con l’utilizzo di un titolo diverso e con un celebre avvertimento al pubblico inserito nel libretto distribuito in sala per la première, nel quale mostrano l’intento principale d’invocare una sorta di indulgenza anticipata per aver ripreso il soggetto di Paisiello. Tuttavia finiscono così per dichiarare in maniera esplicita la loro fonte principale, costituita proprio dal libretto intonato dal collega.
Oggi queste diatribe intorno all’opera lirica ci fanno sorridere e ci sembrano lontanissime nel tempo, ma dobbiamo ricordare che il teatro d’opera è il fenomeno sociale più diffuso in Italia, dalla fine del ‘700 alla vigilia della seconda guerra mondiale. Al tempo di Rossini, tutti vanno a teatro, tutti ammirano uno stile, un librettista, un compositore, tutti sono pronti a fischiare, a volte anche a rincorrere per le campagne, l’artista che non ha soddisfatto le aspettative. Usando un linguaggio calcistico, forse il più adatto a inquadrare questa situazione, gli ultras di Paisiello sono organizzati e numerosi, quelli di Rossini, al tempo della prima in questione, sono ancora pochi, giovani e impauriti. Deluso, Rossini scrive alla madre: «Ieri sera andò in scena la mia opera e fu sollennemente fischiata. […] O che pazzie, o che cose straordinarie si vedono in questo paese sciocco […]».
Il lavoro di Rossini però è divertente, moderno, brillante, coinvolgente, musicalmente impeccabile e, dalle repliche successive alla seconda, una coda lunghissima si forma ogni sera di fronte all’ingresso del Teatro Argentina. Ogni alzata di sipario vede un pubblico entusiasta, in delirio, che esprime al giovane compositore l’ammirazione per aver partorito, dopo solo quindici giorni di gestazione, l’opera ideale.
«Carissima madre, io Vi scrissi che la mia opera fu fischiata, ora Vi scrivo che la Suddetta ha avuto un’esito il più fortunato mentre la seconda sera e tutte le altre reccite date non hanno che aplaudita questa mia produzione con un fanatismo indicibile faccendomi sortire cinque, e sei volte a ricevere aplausi di un genere tutto novo e che mi fece piangere di sodisfazione». Da questa lettera alla signora Anna Guidarini, in Rossini, si comprendono chiaramente la gioia e lo stupore del compositore per essere riuscito a conquistare il pubblico romano.
Poche opere godono una fama paragonabile a quella de Il Barbiere di Siviglia, opera buffa per antonomasia, anche se, alla luce della sensibilità attuale, l’aggettivo “buffa” risulta riduttivo rispetto alla complessità del messaggio che ci porge il capolavoro rossiniano. Si provino a mettere in fila un paio di espressioni della sola cavatina di Figaro (il «factotum della città»), fra le tante entrate nel linguaggio comune sparse per tutto il lavoro, da «Figaro qua, Figaro là», a «Uno alla volta, per carità», per accorgersi quanto quest’opera faccia parte della cultura occidentale.
Dietro all’apparenza di una facile presa comunicativa si cela dunque un meccanismo sofisticato, così ben rodato da rendere naturale e attraente per tutti i pubblici la complessità dell’opera. Quello fra Almaviva e Figaro è sancito da un gesto spontaneo del barbiere-musico: il prestito della chitarra, lo strumento che, anche ai tempi di Rossini, era simbolo di ibridazione sociale. Una tale prospettiva consente di cogliere con maggior vivezza, ad esempio, il potere seduttivo di una canzonetta, così alla buona quale è «Se il mio nome saper voi bramate», che induce la ragazza a comparire sul balcone, senza tutto lo spreco di mezzi richiesti dalla paludata serenata iniziale «Ecco ridente in cielo», ricca di metafore auliche, ma ben poco adatta a conquistare il cuore e l’animo della sua innamorata. Tutti crediamo di conoscere Il barbiere di Siviglia, ma non è così: come tutti i capolavori riserva sempre qualche sorpresa, basta cambiare angolazione.
Lorenzo Ancillotti